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    RIASSUNTO PER RIORDINARE LE IDEE...NUMERO DUE..NON CI STAVA TUTTO

    katrina
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    Messaggio  katrina Mar Feb 07, 2012 1:19 pm


    L'ORCHIDEA E IL LEONE DI KATRINA




    Il vento spazzava la valle. Che fatica alzarsi di buon'ora per andare a lavorare i campi. E poi per che cosa? Per portare ricchezza al tiranno che viveva nel castello e pretendeva tutti i proventi del nostro lavoro per arricchirsi lasciando ai sudditi solo il minimo per sopravvivere e, a volte, nemmeno quello...
    "Che senso ha tutto questo?" Leonora se lo chiedeva spesso, anche quella mattina, mentre la catinella dell'acqua le rimandava l'immagine del suo viso. Era cresciuta con Rachele, una vecchia resa burbera dal tempo e dal dolore, che affittava due camerette ai pochi viandanti di passaggio. Col tempo Leonora aveva imparato ad amarla, era la sua unica famiglia...almeno l'unica che conoscesse. Nei suoi occhi e nei suoi sogni, il bel volto di una donna bruna, giovane e spaventata...altro non riusciva a ricordare. Da piccolina fantasticava, diceva agli altri bambini che forse era la figlia illegittima di qualche nobile, che un giorno, pentito, sarebbe venuto a cercarla e lei avrebbe vissuto in una ricca dimora, ricordandosi e aiutando tutti gli amici...Ormai aveva smesso di sognare, la dura realta' l'aveva travolta. Ma sentiva nel suo cuore una forza, una volonta' di mai cedere, una speranza...Rachele diceva che nel suo nome stava il segreto..Leonora..un leone nell'esile corpo di una fanciulla. Ma qualcos'altro la sosteneva..l'unico ricordo tangibile di sua madre, da cui non si separava mai...


    CAPITOLO 2 SEQUEL DI NADIA 75


    I suoi pensieri furono interrotti bruscamente da quanto stava succedendo nel cortile. Tentò di correre fuori ma Rachele e suo marito la bloccarono appena in tempo per evitare che diventasse il bersaglio inconsapevole di una freccia scagliata da un arciere a volto coperto e diretta mortalmente ad un crucco del Tiranno che cercava di fare del male a Sebastiano.
    Chi erano quegli uomini comparsi dal nulla, che si erano avventati senza timore contro le guardie del Tiranno? Sembravano estremamente sicuri di loro stessi, dovevano far parte di un esercito altamente qualificato. Leonora era riuscita solo ad intravedere un piccolo stemma raffigurante il profilo di un'orchidea ricamato sui mantelli...Le ricordava qualcosa che aveva gia' visto. Ma dove? Perchè era rimasta cosi' colpita da quel piccolo particolare?
    Improvvisamente si allontanò dalla finestra e salì velocemente le scale verso la sua stanza. "Dovi corri Leonora? La colazione è pronta, si fredderà se non scendi subito!..Leonora!?".Incurante del richiamo di Rachele, Leonora entro' in camera sua ed aprì un piccolo portagioie dove era custodito gelosamente l'unico ricordo lasciatole da sua madre: un piccolo ciondolo raffigurante su un verso una Madonna un rilievo e sull'altro...sì, proprio un profilo di orchidea esattamente identico a quello ricamato! Non poteva essere solo una coincidenza! pensò tra sè e sè Leonora stringendo sul suo petto il piccolo ciondolo...e con rinnovato entusiasmo e determinazione scese a fare colazione.



    CAPITOLO 3 DI KAT


    D’istinto pero' aveva nascosto nel corsetto l’altra testimonianza di sua madre: uno stiletto sottile e affilatissimo, sulla cui elsa era incisa…un’orchidea! Solo adesso la notava. Di sotto i due crucchi superstiti stavano ancora brutalmente interrogando Sebastiano. Per fortuna, erano stati tutti colti di sorpresa dai misteriosi arcieri, apparsi e spariti come fulmini sui loro destrieri, e questo scagionava Rachele e gli altri. I crucchi caricarono il cadavere del compagno sul cavallo e se ne andarono, preoccupati della reazione del Tiranno. Rachele e il marito, servendo la colazione, si scambiarono un'occhiata d'intesa, ma nè Sebastiano, impegnato a ripulirsi dal fango, nè Leonora se ne accorsero. Lei aveva bisogno di risposte, forse c'era una persona che poteva aiutarla. Corse verso il bosco, guidata da un sottile lingua di fumo. La capanna di Keyra era lì', all'inizio del boschetto di querce, defilata dal resto del villaggio. Keyra veniva dal Nord, l'ultimo dei regni conquistati dal Tiranno. Aveva pochi anni più di Leonora, ma una grande saggezza e una mente brillante. Tutti la consideravano una strega, ma era una brava guaritrice, sempre disposta ad aiutare senza nulla chiedere, e quindi l'avevano accettata. Si dice che persino il Tiranno fosse ricorso con successo ai suoi intrugli d'erbe per una brutta febbre.
    Leonora entrò di corsa e si bloccò. Keyra non era sola. Una massa di riccioli rossi era china sul letto dove giaceva, prono, un giovane. Senza voltarsi la salutò
    "Leo, benvenuta! lui è Brogan, viene dal Nord come me. Si è ribellato ai crucchi ed è stato crudelmente frustato. Sta cercando di tornare a Thirakitan, ma non può fuggire in queste condizioni, ha bisogno di protezione."
    Il Nord, l'ultima sacca di resistenza al Tiranno, quante volte Leonora, senza capire il perché, aveva sentito il bisogno, l'urgenza di andarci. Forse il suo sogno poteva ora realizzarsi, era un segno del destino?
    "Keyra, lo nasconderemo noi, sarà' al sicuro!". L’uomo rispose flebilmente “Grazie”, lanciando un’occhiata impercettibile, ma Keyra colse qualcosa che non le piaceva in quegli occhi.
    “Keyra, sapessi che è successo, l’orchidea..”
    “Leonora, ti pare il momento di parlare di botanica? Dobbiamo mettere in salvo Brogan”la zittì Keyra, e di nascosto, le parlò nell’antica lingua dei segni.
    Era ancora in uso solo presso i popoli del Nord, ma Keyra l’aveva insegnata a Leonora, cosi’ potevano spettegolare liberamente quando giravano per il mercato del villaggio.
    Ora servì a manifestare tutti i dubbi su Brogan….
    “Non mi fido di lui, mentre lo spogliavo per medicarlo, ho notato un tatuaggio che ho gia’ visto su un crucco e poi i suoi occhi...mi sbaglierò ma non scopriamoci, soprattutto non parlare di orchidee con lui, e stai attenta, state tutti attenti”.Leonora annuì. Anche stavolta non sarebbe riuscita a scoprire nulla del suo passato, ed era stata troppo impulsiva, accidenti al suo carattere!
    Dopo le cure, Leonora si avviò verso casa sorreggendo Brogan che continuava a ripetere “Grazie, mia dolce damigella, te ne sarò sempre grato!”. Keyra li osservava sulla soglia.
    Appena fuori dalla portata del suo sguardo, però… la sorpresa. Brogan smise di strascicare i piedi e si avventò su Leonora cercando di immobilizzarla.
    “Piccola bastarda, finalmente ti ho trovato, il Tiranno mi coprirà’ d’oro!”
    Fu un attimo…poi uno sguardo stupito, incredulo.
    Brogan si accasciò, lo stiletto conficcato dritto nel cuore. Leonora era attonita: aveva reagito con uno scatto felino, non sapeva come, l’aveva.. sentito dentro…una voce che ora le diceva di recuperare l’arma e nascondere il corpo, con l’aiuto di Keyra, e...
    “Ora sei davvero nei guai!”

    CAPITOLO 4 LA TERZA CARTA DI YENDIS
    Le peripezie si moltiplicano, i rischi pure. Il nostro eroe deve fare una scelta

    Ancora paralizzata da da un misto di terrore, e stranamente coraggio e orgoglio, Leonora sentì la presenza di Keyra alle sue spalle accorsa trafelata,con il fiatone.
    "Forse sono davvero una strega, me lo sentivo che non c'era da fidarsi!"
    "Keyra come fai a scherzare ora, ho ucciso un uomo! E...non so neanche come ho fatto!" e le riferì le parole di Brogan.
    "Il Tiranno ti cerca, di sicuro questo era un viscido cacciatore di taglie, ha avuto cio' che meritava"
    "Ma perchè Keyra? Che puo' volere un Signore così potente da un'umile aiuto affittacamere?"
    L'agitazione impedi' a Leonora di cogliere una strana espressione sul volto dell'amica, solo per un'impercettibile istante.
    "Non lo so Leo, ma ora devi fuggire, il piu' lontano possibile.Qui sei in pericolo, non puoi più fidarti di nessuno!" e proseguì nell'antica lingua dei segni:
    "Vai al Nord al villaggio di Celalid, cerca Fearchar, significa colui che è molto caro, e mi e' davvero caro, di lui ti puoi fidare. La' troverai le risposte che cerchi, ma stai attenta e prendi questo" disse porgedole un sacco. Dentro c'erano alcune provviste, una mappa, un mantello e alcuni abiti maschili.
    "Presto Leo, non c'e' tempo da perdere, indossa questi abiti, se il Tiranno cerca una fanciulla, i suoi sgherri non faranno caso ad un ragazzo straccione. Qui ci penso io a fare "pulizia". E tieni questo, potrebbe salvarti la vita" disse Keyra mettendole in mano un anello sigillo con una testa di leone.
    L'abbraccio che seguì scatenò un'ondata di emozioni in Leonora. La paura dell'ignoto che la attendeva e la tristezza di lasciare una vita grama, sì, ma tranquilla, l'attanagliavano. E allo stesso tempo sentiva una forte attrazione verso un destino piu' grande, forse tragico, ma era il suo destino, non poteva fuggirgli!
    "Va, e che la fortuna ti assista, amica mia!" la voce di Keyra tremava dalla commozione
    "Ritornero', Keyra, lo giuro!"
    "Lo so. Sei un'orchidea, ma sei anche un leone".
    Leonora non ebbe il tempo di meditare sulla sibillina frase dell'amica. In lontanaza si udivano dei cavalli al galoppo.
    Si infilo' lesta nel bosco. Gli alberi all'inizio erano radi e lei riusci' a scorgere la sua casa. Un groppo le chiuse la gola, e a stento riusci' a trattenere le lacrime, forse non avrebbe piu' rivisto i suoi cari. Nulla sarebbe piu' stato come prima...
    Si mise a correre all'impazzata, per non pensare, fermandosi solo per controllare di non essere seguita. Tutto pareva tranquillo. La mattinata era ventosa, come sempre nella valle, il sole splendeva, ma i raggi che filtravano tra i rami non riuscivano a scaldare il suo cuore.
    "Fatti forza e corri" le diceva la solita vecchia voce interiore, che adesso le pareva estranea...continuo' a correre, ma ora le lacrime le rigavano il volto.
    E cosi' non la vide. Una sottile corda tra due tronchi, un tranello.
    Fini' rovinosamente gambe all'aria e in meno di un battito di ciglia, due loschi figuri le bloccarono le braccia a terra con i loro piedi. Due briganti ! Stracciati e sporchi, ma decisamente determinati!
    Leonora ne aveva sentito parlare, infestavano il bosco e rapinavano i viaggiatori. Nemmeno i crucchi del Tiranno erano mai riusciti ad avere la meglio su di loro. Erano furbi e conoscevano il bosco come le loro tasche.
    "Ehi giovanotto, dove vai cosi' di fretta? Ah perdona, Messere, prima le buone maniere! Mi presento, io sono Finestra e lui e' il Guercio..per via del suo occhio storto, ma non glielo ricordare, e' molto permaloso!" e giu' una risata che giustificava a pieno il suo soprannome.
    "Gia' ragazzo, non lo sai che il bosco e' nostro? - fece il Guercio strizzando l'occhio buono- ma noi siamo moooooolto generosi! Dietro un piccolissimo obolo, concediamo il passaggio a chiunque, specie a chi sembra avere una certa fretta!!".
    "Ma io non ho nulla!" Leonora si sforzo' di fare la voce piu' maschile che poteva.
    "Ah Ah Ah! Piccolo bugiardo, fanno bene a cercarti i crucchi, perche' stai fuggendo dagli sgherri del Tiranno, vero? E questo cos'e'?" l'occhio esperto di Finestra aveva gia' notato il ciondolo con l'orchidea.
    E ancora qualcosa scatto' nella mente di Leonora, inconsapevole, ma certa che avrebbe difeso quel simbolo fino alla morte. Per molto tempo ancora non avrebbe capito la sua reazione: con una mossa rapidissima, sferro' un calcio..nelle parti nemo nobili di Finestra, che si piego' in due dal dolore imprecando.
    "Maledetto moccioso, ti ammazzo!" Il Guercio si avvento' su di lei brandendo un coltellaccio, ma Leonora lo schivo' riuscendo ad assestargli un pugno nello stomaco, e sguaino' lo stiletto, pronta al contrattacco.
    Non si accorse che Finestra si era ripreso e stava per colpirla alle spalle con la sua lama.
    In quell'istante un sibilo attraverso' l'aria e il coltello di Finestra volo' via, lasciando tutti paralizzati per la sorpresa.
    Due arcieri a volto coperto. Gli stessi che avevano difeso Sebastiano, gli stessi che indossavano un mantello con lo stemma dell'orchidea.
    Leonora rimase impietrita, mentre i due briganti si davano alla fuga.
    Gli sconosciuti li lasciarono andare.
    "Siete ferita, mia Signora?" Ma il travestimento non li aveva ingannati?
    "Chi siete, che volete da me?". L'inquietudine di Leonora contrastava con il senso di fiducia che quei due le ispiravano.
    "Vi spiegheremo tutto strada facendo. Dobbiamo fuggire al Nord, da Fearchar, non c'e' un minuto da perdere, io sono Sean e lui e' Kalian, prendete questa spada e questo mantello, fara'freddo al Nord. I cavalli ci aspettano qui dietro, nella radura." e si tolsero il cappuccio.
    Erano gemelli identici. Biondi, belli, intensi occhi verdi, espressione forte e franca, ma Leonora non si fece distrarre dalla loro avvenenza.
    "Mi avete salvato la vita, e ve ne sono grata, ma io non so chi siete, come faccio a fidarmi di voi? Chi mi dice che non mi consegnerete al Tiranno, che mi cerca e non so nemmeno perche'?"
    "Non temete, Leonora. Noi siamo soldati, non abbiamo tutte le risposte che cercate. Ma mi e'stato detto di dirvi che Neilina vi vuole vedere" disse Kalian.
    A sentire quel nome, Leonora fu un'altra volta catturata da quel vortice di sensazioni e vaghi ricordi che ormai la coglieva spesso...Perche' non c'era un barlume di chiarezza nella sua mente confusa?
    Non era tempo di domande, ora. Era tempo di decisioni.
    Mise laspada sulla schiena, strinse la cinghia e si butto' il mantello sulle spalle.
    "Andiamo, miei Signori!"



    XXXXXX




    L'ALBA DI DOMANI DI JTKIRK



    -Il vento spazzava la valle. Che fatica alzarsi di buon'ora per andare a lavorare i campi. E poi per che cosa? Per portare ricchezza al tiranno che viveva nel castello e pretendeva tutti i proventi del nostro lavoro per arricchirsi lasciando ai sudditi solo il minimo per sopravvivere e, a volte, nemmeno quello...
    Giovanni guardava i suoi strumenti di lavoro... Una falce, una vanga, una zappa ed il basto per i buoi con l'aratro. Pensò a come questi strumenti che trasformavano il lavoro dell'uomo in frutti, in ricchezza, benessere, potessero anche essere usati per distruggere ed uccidere.
    Rabbia, ora solo quel sentimento riusciva a scuoterlo.
    Non c'era più l'amore, non c'era più la compassione. Da quando la moglie ed il figlio erano stati uccisi dai soldati del tiranno, lui provava solo odio e rabbia



    CAPITOLO 2 DI JTKIRK

    CAPITOLO SECONDO
    Giovanni si diresse verso il campo da arare. Improvvisamente la sua attenzione fu catturata da uno strano luccichio proveniente dal terreno. Si avvicinò a quella che sembrava una sfera di metallo fumante.
    Impugnò la vanga e la sollevò sopra la sua testa. Lentamente si portò ad un passo da quello strano oggetto.
    Qualcosa si mosse dalla superficie della sfera. Quello che sembrava uno sportello, lentamente si sollevò.
    Una piccola figura grigia sollevò una esile mano dal portello.
    "Chi sei! Cosa ci fai nel mio campo!" gridò Giovanni brandendo la vanga
    "Aiutami..." una voce gli parlò direttamente nella testa. Spaventato Giovanni spalancò la bocca ma non uscì alcun suono.
    "Aiutami... Ti prego. Portami in un luogo sicuro. Per favore"
    Giovanni restò immobile. Per la prima volta dopo tanto tempo provò compassione. Raccolse la sfera con entrambe le mani e la caricò sul carretto. Poi prese la strada di casa, deciso a nascondere la sfera ed il suo piccolo passeggero nel capanno degli attrezzi.
    "Grazie" disse la vocina nella testa, "saprò ripagarti del tuo aiuto", "ci vorrebbe un miracolo piccolo amico..." disse Giovanni". "I miracoli avvengono, basta saperli creare" rispose la vocina.
    Mentre apriva la porta del capanno, sentì un rumore di passi sul selciato. Si voltò coprendo di fretta la sfera con il sacco di juta.
    "Ciao Giovanni!" gli fece Nicola, il suo vicino di podere, "come mai non sei ancora sui campi? Il sole é già abbastanza alto nel cielo". "nemmeno tu sei al lavoro..." rispose Giovanni. "che cosa porti nella rimessa?" continuò Nicola, "forse ti occorre aiuto?". "No non ti preoccupare. Torno subito al campo" e così dicendo spinse il carretto nella rimessa e richiuse bene la porta dirigendosi nuovamente al lavoro.
    "Grazie amico... " sussurrò la voce nella sua testa.


    il "cameo" di GuitarClaudio

    "Uff, che palle!" sbuffò spazientito Johnny davanti alla tv, stravaccato sul divano e morto di noia, mentre guardava il primo episodio de "L'alba di domani" convinto dal bombardamento mediatico della massiccia campagna di lancio della fiction.
    "Muori, Giovanni: psciuuuummm!!!" esclamò facendo il verso di un raggio laser, mentre con un gesto plateale di braccio e telecomando spegneva bruscamente la tv. Il monitor si oscurò di botto, lasciando solo un piccolo puntino bianco al centro del televisore, che via via diventava sempre più piccolo, fino a sparire del tutto con un inconsueto rumore di risucchio che Johnny lì per lì classificò come normale.
    E ora? Aveva il pomeriggio e la casa a disposizione, visto che i suoi erano usciti a sbrigare non ricordava bene cosa, ma lui di questa improvvisa ed inaspettata libertà proprio non sapeva che farsene. Velocemente archiviata la speranza di passare una mezz'oretta alla tv, giocherellò un po' col suo iPhone, gettandolo con malcelata grazia sul divano solo pochi secondi dopo. Di intrigarsi delle facebookiane faccende altrui proprio non ne aveva voglia, valutò quindi l'ipotesi di fare un po' di skate per strada, anche se la mattinata era stata uggiosa. Chissà, forse le nuvole erano state sopraffatte dal sole, o forse il vento, che ora sentiva soffiare con vigore, aveva spazzato via il maltempo. Fece per scostare la tenda, e quel che vide lo lasciò basito. Non c'era il residence, non c'erano i palazzi, il cortile, le strade, tutto quello che faceva parte del paesaggio consueto dal suo appartamento al piano terra. Al loro posto, una vasta distesa di campi coltivati alternati a erba verdissima, punteggiata qua e la da modeste casette molto malmesse, ognuna col suo orticello attorno. In lontananza, nella parte alta di quella che sembrava una gigantesca vallata, un enorme castello medievale si stagliava tetro contro il cielo pomeridiano.
    "Ma cosa cazz..." Johnny era sgomento. Dapprima pensò ad un scherzo. Ma uno scherzo di chi? No, impossibile. Poi si convinse che aveva avuto una visione.
    "Ora chiudo gli occhi, e quando li riapro tutto torna come prima, tutto torna come prima, come prima". Strizzava forte forte le palpebre come a cancellare il panorama che fino a pochi secondi prima gli aveva riempito la vista, ed ora non aveva il coraggio di riaprirle. "Giuro che smetto di drinkare limoncello di nascosto dopo pranzo, lo giuro! Ora però apro gli occhi e tutto torna a posto, sono solo un po’ ubriaco...". Riaprì piano piano gli occhi, e quando riuscì a mettere nuovamente a fuoco, si accorse che la valle era sempre lì davanti ai suoi occhi.
    "Oh, no, cazzo cazzo cazzissimo!"
    Si portò le mani alla testa, si tirò i capelli e cominciò a schiaffeggiarsi, con l'unico risultato di diventare paonazzo. Andò in bagno e mise la faccia sotto l'acqua gelida per un tempo che gli sembrò interminabile. Poi, ancora fradicio, si avvicinò alla finestrella del bagno con i vetri opachi, che aprì con cautela, temendo ciò che si poteva celare dietro. Campi di grano, colline verdi, e quel maledetto castello.
    Corse alla finestra dall'altro lato della casa e scostò le tende di botto: verde a perdita d'occhio.
    "Cos'è, un incubo cromatico? Cazzo, cazzo, cazzissimo!" e corse fuori casa a constatare di persona. La sua ingenua mente di ragazzino si illudeva che la causa di tutta quella follia fosse da addebitarsi a quel bicchierino di limoncello ghiacciato che si era tracannato di nascosto, e sperava sempre che i suoi sensi, annebbiati dall'alcool e dalla noia, gli stessero giocando un brutto tiro. Aprì l'uscio di casa e si ritrovò in mezzo ad una tempesta di vento, i piedi che calpestavano l'erba verdissima, più reale di qualsiasi altra cosa su cui avesse mai camminato. Un botto alle sue spalle lo fece sobbalzare.
    "Oh no, la porta! Sono rimasto chiuso fuori!" disse tastandosi le tasche dei jeans giusto per confermare quello che temeva: non aveva le chiavi addosso. Ma quando si girò verso l’entrata di casa sua per poco perse i sensi. Il palazzo non esisteva più. C'era solo una rimessa, ed accanto quattro mura che a stento si tenevano in piedi. E la cosa più assurda, più folle, era che tutto quello che vedeva gli sembrava essere un fortissimo deja vu. Quel posto lui l'aveva visto, ma dove? Quando realizzò, cominciò a sudare freddo: in tv, solo pochi minuti prima, in quella pallosissima fiction!





    XXXXX




    ADELE E LA LUNA SUL CAMINO DI CHIHIRO




    -Il vento spazzava la valle. Che fatica alzarsi di buon'ora per andare a lavorare i campi. E poi per che cosa? Per portare ricchezza al tiranno che viveva nel castello e pretendeva tutti i proventi del nostro lavoro per arricchirsi lasciando ai sudditi solo il minimo per sopravvivere e, a volte, nemmeno quello...
    Adele aveva dieci anni e alle nove del mattino era già rientrata dal forno del paese con due pagnotte belle calde di pane appena sfornato. Si era alzata che era ancora buio e dietro alla sorella più grande, Maria, era uscita di casa alle prime luci dell’alba, con i lampioni a gas ancora accesi e una striscia di cielo azzurro contro le montagne. Le due bambine si erano avvolte nei loro scialli intirizzite dal freddo e Adele ancora assonnata aveva camminato per un pezzetto con gli occhi chiusi, stringendo al petto il sacco di farina. Solo al forno, scaldate dal fuoco vivace della bocca di mattoni e dalle voci delle altre donne dalle gote rosse dal calore, si erano sentite al sicuro, con le guance che si incendiavano e le labbra che si screpolavano in un sorriso. Per tutto il viaggio di ritorno a casa avevano riso, una pagnotta calda contro il petto di ognuna e la luna spenta che le guardava rientrare rincuorata.



    CAPITOLO CAMEO DI YENDIS


    Rientrando in casa, però, si erano subito zittite. C'era uno strano silenzio, la mamma aveva gli occhi rossi e fissava, senza far nulla, il camino che si stava spegnendo; al piccolo Roberto nessuno badava. Il loro fratellino si stava succhiando un lembo della vestina, aveva il visetto tutto rosso e gli occhi stupiti e pieni di lacrime, certo aveva pianto parecchio. Adele si tolse il paltot e lo prese subito in braccio con dolcezza, cercando di consolarlo. Maria si era già messa a preparargli un po' di pane e latte, riattizzando intanto il fuoco. Entrambe guardavano di sottecchi la mamma, non osando chiederle nulla.

    Adele aveva appena finito di imboccare Robertino e stava raschiando per bene il fondo del piatto quando la loro mamma, come se le avesse viste solo in quel momento, si lasciò andare sulla panca e disse con la voce rotta: "Vostro padre è morto". Tacque per qualche secondo, come per prendere fiato e riprese: " Maria svelta vai a chiamare Fra Tomaso. Adele tu vai dal falegname e fallo venire qui. Io... io... Andate, su!"

    Adele guardò smarrita la sorella, erano giorni che il loro papà aveva la febbre alta, ma che succedesse una disgrazia così grande... mai mai l'avrebbe immaginato! Robertino, stanco per il gran pianto e con la pancia piena si stava già addormentando sulla sua spalla, lo posò delicatamente nella culla e lo coprì bene. Si rimise il paltot cullandolo sempre più piano ancora un pochino, ormai dormiva profondamente. La sorella la stava aspettando sull'uscio con la faccia triste, la raggiunse e insieme uscirono nella nebbia.



    TERZO CAPITOLO
    Camminarono per un po’ in silenzio, il cuore stretto in una morsa e la paura di piangere al solo tentare di proferire una parola. Se non poteva consolarle, la nebbia per lo meno sembrava proteggerle dal mondo esterno e dagli sguardi dei passanti, rinviando il momento di uscire allo scoperto e di dover dire ad altre anime vive della morte del loro padre.
    Fu davanti a un lampione acceso che le due bambine si separarono, dirette verso la canonica una e verso la falegnameria l’altra.
    Una volta rimasta sola Adele sentì un gran freddo entrare nelle ossa e provò nostalgia per quei minuti di serenità trascorsi solo poche ore prima al forno. Senza rendersene conto arrivò davanti alla porta del falegname e entrò.
    In un primo momento nessuno si accorse della bambina. C’erano altri clienti nella bottega e tra di loro parlavano di mensole e scalini da ordinare come se fossero di vitale importanza. Adele li odiò e sentì le lacrime bruciarle gli occhi. Sentiva la voce del falegname Luigi sgridare il garzone per aver sbagliato un intarsio e sentì le lacrime scendere lungo il viso e arrivarle salate fino alle labbra. Si asciugò con la manica del cappotto e vide che uno dei clienti la fissava. Era un uomo alto, col mantello spesso e un cilindro ben calato in testa. La guardava da dietro gli occhiali con aria attenta e stranamente interessata.
    - Cosa ti succede piccola?
    - Niente, ho fretta di parlare con Luigi, deve venire a casa mia
    - Cosa è successo? – chiese lesto il cliente elegante
    - E’ morto mio papà e la mamma ha detto di far venire il falegname a casa
    Lo strano signore sembrò riflettere per qualche istante prima di continuare
    - Ho paura che Messer Luigi qua ne abbia per un po’. Ma non ti preoccupare, anch’io ero un falegname. Vista la situazione, posso venire io da te e non chiederò nemmeno un soldo alla tua mamma.
    La bambina rimase per qualche istante in silenzio e lo strano cliente continuò sorridendo:
    - Che maleducato, non mi sono ancora presentato: mi chiamo Altiero e tu?
    - Adele. Grazie signor Altiero, ma non vorrei recarle disturbo…
    - Nessun disturbo piccola Adele, ero qui per salutare il mio amico Luigi, ma posso tornare in un altro momento. Se si tratta di aiutare una famiglia in difficoltà…
    Adele, che non vedeva l’ora di uscire dalla falegnameria, pensò che per lo meno la mamma avrebbe potuto risparmiare qualche soldo e accettò di buon grado l’aiuto di quel generoso signore così elegante.
    Il nuovo benefattore sorrise mellifluo e strinse le mani della bambina
    - Bene Adele, aspettami qua fuori mentre vado a prendere la carrozza e ti accompagno a casa.
    Uscirono dalla bottega ancora avvolta dalla nebbia e, mentre iniziava a sentire una strana inquietudine salirle dal cuore, Adele vide un’ombra sbatterle contro. Era Milo, il garzone che si era appena preso una sonora strigliata dal suo datore di lavoro che usciva di gran carriera dal retro della falegnameria.
    - Scusa Adele non ti avevo visto
    - Non ti preoccupare Milo, nemmeno io ti avevo riconosciuto, sto aspettando una persona
    - Se vuoi l’aspetto insieme a te. Ho tutto il tempo che vuoi, Luigi mi ha appena cacciato per un intarsio che non piaceva al cliente. Ma in fondo io so che il mio giglio era molto più bello della banale edera che era stata richiesta. Ma chi stai aspettando?
    - Un amico di Luigi, si chiama Altiero e faceva il falegname. Si è offerto di venire a casa mia per…per..
    Le parole le morirono sulle labbra
    - Per?
    - Per la bara del mio papà
    La nebbia coprì lo sguardo rattristito di Milo, che, con la voce più ferma che riuscì continuò:
    - Un amico di Luigi? Quel falegname non sarebbe amico nemmeno di Geppetto e Pinocchio con il carattere che si ritrova! Sei sicura che ti ha detto così?
    - ..sssì, mi sembra di sì. Ha detto che non ci avrebbe chiesto un soldo e che sarebbe venuto subito a casa mia..
    - E tu ti sei fidata così?
    - Mi sa di sì…in effetti era un po’ troppo elegante per essere stato un falegname … avrei potuto almeno chiedere come mai aveva smesso…
    - E ora stai per portarlo a casa tua?
    - Credo di sì… non lo so, mi sembrava un buon affare…sono stata una sciocca!
    Lo stomaco di Adele iniziò a contorcersi per la paura. In un momento così triste lei aveva dato fiducia a un perfetto sconosciuto portandolo addirittura da sua mamma che ignara, stava aspettando di vederla arrivare con il falegname del paese.
    - E ora come faccio a…
    Adele non fece in tempo a finire la frase che sentì Milo prenderle la mano e intimarle:
    - Corri!!
    I due ragazzini iniziarono a correre più forte che potevano, schivando ombre di passanti e gatti randagi. Arrivarono al lampione ormai spento dove poco prima si erano separate le due sorelle, e svoltarono, accompagnati dal sole che finalmente iniziava a illuminare la strada e dagli ultimi scampoli di una nebbia che si stava oramai diradando. Adele si sforzò di non pensare a quello che l’aspettava a casa e di dimenticarsi di non aver svolto il compito che le aveva dato la mamma. Il cuore le batteva ancora forte, ma iniziò a sentirsi sollevata. Da casa sua usciva un po’ di fumo dal camino e qualcuno stava correndo insieme a lei stringendole la mano. Se non avesse visto la sorella arrivare sull’uscio con il curato avrebbe forse sorriso pensando che, nonostante tutto, dopo la nebbia, può esserci ancora il sole, e il camino acceso.

    Nel frattempo, davanti l’insegna del falegname del paese, un uomo elegante scendeva da una carrozza con aria contrariata. Si toglieva il cilindro e lo buttava rabbiosamente per terra per poi raccoglierlo con indifferenza sotto gli sguardi contrariati di due passanti. Avrebbe dovuto ricominciare da capo, rientrare in quella bottega polverosa e attendere nuovamente il cliente giusto, un cliente con lo sguardo triste e una bara da ordinare. Una bella bara da seguire e in cui nascondere il bottino che giaceva sul fondo del suo cappello.




    XXXXX




    MESSER ALLOCCO, LA BELLA FIGLIUOLA E LA MELAMUSICA DI GUITARCLAUDIO



    -Ringriaziamenti
    Un doveroso omaggio alle minchiate che, indigene, popolano stabilmente il mio pensiero: senza di loro tutto questo non sarebbe mai stato scritto (e forse, dirà qualcuno dopo aver attentamente letto, sarebbe stato pure mejo).

    Narrando della favola di Messer Allocco…
    Come tutte le favole che si rispettino, comincerò a raccontare la mia storia – anzi, la nostra storia – con un bel “c’era una volta”. Eh si, perché i nostri eroi, le persone che ci faranno ridere e piangere e sognare e chissà quant’altro ancora, si muovono in un tempo tanto tanto lontano dalla nostra era. Si va bene, direte voi, ma “c’era una volta” dove?
    Immaginate… una valle.
    E già vi sento sbuffare di impazienza! Certo certo, lo so che non mi sono sforzato chissà poi quanto per tirar fuori una favola ambientata in una valle. La maggior parte delle favole, direte voi, si svolge su belle valli verde smeraldo, con graziose casette colorate e felici paesani che onorano le feste con banchetti colmi di leccornie. Ma la mia storia – anzi la nostra storia – no. La nostra è ambientata in una valle spazzata dal vento, incessantemente. Anzi, sapete che vi dico? Non comincerò nemmeno col canonico “c’era una volta”. Perché, si sa, un inizio diretto e drammatico rende sempre più avvincenti le storie, soprattutto se siete ben disposti all’ascolto, al calduccio di un bel caminetto a legna e con in mano qualcosa di buono da bere. Ah, siete astemi? E non siete affatto ben disposti?!? Allora mi toccherà essere ancora più interessante per catturare la vostra capricciosa attenzione. Il vento non è bastevole a rendere drammatica l’ambientazione? Sentite questa, via il “c’era una volta” e partiamo con: Il vento spazzava la valle. Che fatica alzarsi di buon'ora per andare a lavorare i campi. E poi per che cosa? Per portare ricchezza al tiranno che viveva nel castello e pretendeva tutti i proventi del nostro lavoro per arricchirsi lasciando ai sudditi solo il minimo per sopravvivere e, a volte, nemmeno quello...
    D’accordo, ho calcato un po’ troppo la mano, ma ormai ho deciso, il dado è tratto, e la nostra storia comincerà proprio così. Buon ascolto.

    La favola di messer Allocco, la Bella Figliuola e la MelaMusica
    Il vento spazzava la valle. Che fatica alzarsi di buon'ora per andare a lavorare i campi. E poi per che cosa? Per portare ricchezza al tiranno che viveva nel castello e pretendeva tutti i proventi del nostro lavoro per arricchirsi lasciando ai sudditi solo il minimo per sopravvivere e, a volte, nemmeno quello... Ma la persona della quale narreremo le gesta non era granché toccata da questo tristo contesto. Perché, vi chiederete voi? Semplicemente, il nostro uomo portava il suo fato scritto nel nome. Perché egli si chiamava Steve Allocc. E, si sa, il nome rivela quello che siamo, e poiché le parole “steve allocc”, in un oscuro dialetto di qualche amena regione bagnata dall’Adriatico, significa proprio “ero da un’altra parte”, il destino del nostro Steve, ignaro portatore di cotal bislacca coincidenza fonetica, era quello di perdersi il “qui ed ora” della sua vita. Non ci credete? Ebbene ascoltate: se c’era l’arcobaleno nel cielo, il più bello e vivido che si possa immaginare, lui era di sicuro al chiuso della sua cantina intento a riparare le assi del tetto, e se un’estate improvvisa riscaldava la valle nel bel mezzo del gelido inverno lui – potete giurarci – era nella settimana di corvee alle ghiacciaie reali a preparar sorbetti per i commensali e a morir di freddo. E se il duro frutto di lavoro, fatica, lacrime e sangue di messere Allocc veniva tributato al monarca in cambio di una miseria, poco importava: Steve sognava l’Amore Vero, che un giorno avrebbe reso la sua vita un Paradiso.

    Insomma, sembrava proprio che il destino di Steve fosse quello di essere sempre altrove. Tranne quella volta. Perché, sapete, delle volte la sorte gioca sadicamente a carte con noi e si diverte a servirci una mano fortunata, dando però all’avversario carte ancor migliori, per poi sbellicarsi guardando la scena che ne seguirà.
    Ah, se quella volta Steve avesse onorato il suo nome e fosse stato da un’altra parte, mentre la bellissima madame Stafija passava per strada dentro la sua carrozza! Se l’avesse colpito un fulmine, di certo avrebbe avuto conseguenze meno nefaste di quel mezzo sguardo rubato tra i pizzi ed i merletti che nascondevano il volto dell’affascinante straniera dalle esotiche origini. Inutile dirlo, egli se ne invaghì follemente sin da subito, sfatto come una pera stracotta. E d’altrocanto, non siate lesti a biasimarlo: se voi aveste incrociato il verde sguardo ammaliatrice di Stafija, vi assicuro che vi sarebbe toccata la stessa identica sorte del buon Steve.

    Ma chi era costei? Il padre della ragazza, messier Jacques DeBonne, era un facoltoso commerciante francese di spezie che si era perdutamente infatuato, in uno dei suoi viaggi di lavoro, della bellissima cortigiana veneta Laura Adonna. Dall’unione era nata Stafija, che aveva ereditato dai genitori non solo le loro qualità ma anche ambedue i cognomi.
    E così, in quel giorno di sole, Steve alzò lo sguardo al suono degli zoccoli di un imponente tiro a quattro e si perse negli occhi acquosi di Stafija DeBonne Adonna. E da quel momento, non ci fu verso di levargli quell’apparizione dalla testa. Se incontravi Fija potevi star certo che nei paraggi ci fosse Steve, acquattato a spiare le sinuose movenze della donna, la cui capigliatura biondo miele pareva attirare tutta la luce su di se.
    Per conto suo Stafija DeBonne Adonna, acuta osservatrice, aveva sin da subito intuito il sentire di messere Allocc, e da perfida volpe qual’era, si divertiva a provocare Steve con movenze ed ammiccamenti, per poi lasciarlo di sasso con la sua glaciale indifferenza. Immaginate voi quale scompiglio portava questo giochino della gatta col topo nella vita del nostro messere. Come quel giorno in cui Fija, certa di avere lo sguardo del suo spasimante su di se, con movenza provocante si sistemò appena il vestito attorno al seno. Il cervello di Steve, privato del sangue che rapido effluiva verso zone molto meno nobili, lasciò il nostro messere privo di sensi, con la rovinosa conseguenza di far cadere l’Allocc dall’albero su cui si era arrampicato per ammirare il bel panorama, irrompendo così in mezzo a due morosi che, su una morbida tovaglia di cotone stesa sull’erba, erano intenti a scambiarsi tenere effusioni.
    “Ho visto Stafija…” vaneggiava Steve.
    “Hai visto sto scemo!” imprecava invece il ragazzo mentre lo prendeva a schiaffi per rianimarlo, assai seccato del contrattempo.

    Il nostro buon messere passava quindi le giornate in uno stato di semi-stordimento provocato dal suo profondo invaghimento per Stafija, e più di ogni altra cosa bramava di incontrarla e di parlarle, anche se in cuor suo sapeva che non ne avrebbe mai avuto l’ardire.
    L’unica cosa che pareva risvegliare Steve e riportarlo alla realtà, era – manco a dirlo – un’altra ragazza. Era la cuoca della taverna dove messer Allocc usava rifocillarsi, una ragazzotta ricciolina e bruna, appetitosa, che profumava di selvatico e di erbe aromatiche in maniera talmente intensa da far girare la testa persino in mezzo ad una mezza dozzina di piatti fumanti di zuppa d’aglio e cipolla. Insomma, Rosemary Thyme era proprio una donna da mangiare.
    Tutte le volte che Steve la incrociava, riusciva (senza capirne però la ragione) a provare sollievo dal suo tormento d’amore per la bella Fija. Peccato che tutto si esaurisse nel tempo che Rosemary impiegava per posare il piatto del giorno sul tavolo ed a sparire lesta lesta come una gatta, nel retrobottega a cucinare. E lui restava lì, a fissare il piatto fumante, mentre a poco a poco l’immagine di Stafija DeBonne Adonna tornava a straziare il suo animo ed a levargli ogni traccia di appetito. Tanto che, dal giorno del fatale incontro, il buon messere pareva essere diventato un fantasma a furia di saltare pranzi e cene, e Rosemary che ogni giorno posava il desinare sul suo desco lì alla taverna si crucciava nello sparecchiare quello stesso piatto pieno, lasciato lì. Ecco. Quel piatto servito e non consumato era per la giovane cuoca un’offesa più che se l’avessero malamente apostrofata.
    “Nessuno lascia intonsi i manicaretti cucinati da Rosemary Thyme!” pensava furiosa tra se e se la ragazza.

    Mi pare di sentirvi mentre protestate, voi che ascoltate questa storia. Ci avevi promesso una favola originale ed avvincente, ed invece salta fuori la solita solfa dell’allocco che si innamora della femme fatale, che poi viene salvato, proprio mentre la bella e crudele signora sta per fargli il cuore a fettine per mangiarselo a mo’ di sushi, dalla brava ragazza della porta accanto.
    Certo, lo ammetto, fino ad ora non ho brillato per originalità, ma aspettate che vi narri … della MelaMusica!


    CAPITOLO 2 SEQUEL DI CHIHIRO

    Portate solo ancora un po’ di pazienza. Il tempo di immergerci per qualche istante tra l’odore di cipolle e carne affumicata della taverna ‘Lo scarpone ripieno’.
    La nostra cuoca Rosemary non si dava pace per quel messere che ogni dì le recava l’affronto di un rifiuto. Le era capitato di essere rifiutata al ballo, a scuola, persino alla gara di tiro alla fune, ma mai, mai nella vita, le era capitato che qualcuno rifiutasse la sua zuppa fumante. Questo stava rimuginando tra sé e sé aprendo la porta del retro e porgendo il piatto pieno al mendicante che si presentava puntuale a elemosinare ciò che un altro avea scartato.
    “Grazie Madama” gracchiò il vecchio mendicante.
    “Non ringrazi me, ma messer Allocc che prova gusto ogni dì a pagare per scaldare una sedia alla taverna.”
    “Come come? E’ a lui che debbo tanta abbondanza? E’ dunque lui l’inappetente innamorato? Perché può star certa che di amore si tratta.”
    “E tu che ne sai?”
    “Prima di permettere agli avanzi di cibare il mio corpo, li onoro chiedendo loro di cibare il mio spirito, leggendo in essi la storia di chi non li ha voluti.”
    “Ma tu guarda cosa mi tocca sentire! E cosa direbbero questi avanzi?”
    “Si struggono all’idea di essere stati indesiderati da una mente che vagava. Da un corpo che non c’era. Da un cuore innamorato che, pur seguendo il suo padrone, è rimasto a contemplare ciò a cui il padrone anela.”
    Le gote di Rosemary si fecero ancora più paffute prima di ballonzolare al ritmo di una fragorosa risata.
    “Senti un po’…” disse sedendosi sul marciapiede accanto al mendicante intento a divorare il pasto “..come ti chiami tu?”
    “Una volta tutti mi chiamavano Messer Accat. Ma ora può chiamarmi con il mio nome di battesimo, Toney.”
    “Senti un po’ Accat Toney, com’è che sai tutte queste cose?”
    Il nostro mendicante non rispose subito. Alzò lo sguardo solo dopo aver ripulito per bene la ciotola e si voltò lentamente verso la strada che portava in piazza. Giusto in tempo per vedere uno sconsolato Steve camminare stancamente prima di essere evitato per un pelo da una carrozza trainata da due cavalli.
    La cicatrice sulla guancia destra di Toney si alzò quasi impercettibilmente, sospinta dalle labbra increspate in un sorriso.
    “Toney! Ehi Toney!” insistette la cuoca curiosa “..cos’altro hai da dirmi su quell’uomo?”
    Finalmente lo sguardo del mendicante si posò sugli occhi rotondi di Rosemary e solo allora rispose..”hai mai sentito parlare della MelaMusica?”



    La terza carta - Le peripezie si moltiplicano, i rischi pure. Il nostro eroe deve fare una scelta.

    “La Melamusica? Cos’è? Toney! Toney!!! Aspetta un attimo, non andartene…”
    Ma Rosemary, prima che il misterioso mendicante sparisse definitivamente nel nulla, fece solo in tempo a sentire la voce di Accat che sibillino diceva “..all’alba di domani, sul comò di Steve…”.
    Rosemary principiò a correre nel tentativo di raggiungere Accat Toney, ma la sua foga si scontrò violentemente con lo stralunatissimo Steve che vagava allampanato per le strade, gettando il malcapitato in una pozza di fango proprio mentre lo stesso intravedeva la bellezza mistica di Stafija infilarsi in una viuzza angusta.
    “Oh, corpo d’un sacripante, che ho combinato! Mi scusi Messere! Chiedo venia, andavo di furia e non ho fatto a tempo a scorgerla.”
    “Accipicchia, e poi lo chiamano il gentil sesso, ‘che se non era gentile a quest’ora mi trovavo a vagar per i campi della luna!”
    “Poffarbacco Messere, sono mortificata...” arrossì Rosemary “permettetemi di riparare al torto arrecatovi. Venite con me alla locanda, vi procuro una tinozza di acqua calda e dei vestiti puliti e asciutti.”
    Steve stava per declinare l’invito, aveva ancora in mente l’idea di seguire Stafija per quel vicoletto dove gli era sembrato che si fosse infilata, ma poi si guardò e si rese conto che sarebbe stato meglio evitare che la bella aristocratica lo vedesse ridotto in quello stato.
    Tese quindi la mano a Rosemary “Nonostante tutto siete molto cortese e beneducata, Madama. Come vi chiamate?”
    “Rosemary Thyme al vostro servizio, ma, ve ne prego, chiamatemi pure Rosy.”
    “E allora” aggiunse Allocc in un impeto di coraggio ”Rosy, usami anche tu la cortesia di chiamarmi Steve, e non mettermi ulteriormente in imbarazzo continuando ad appellarmi con deferenza.”
    “Bene bene, andiamo allora!” lo esortò, e così dicendo tirò di slancio il malcapitato su dal selciato, con tale forza che messer Allocc si ritrovò catapultato di colpo contro le morbide rotondità della cuoca, insozzando di fango il bel grembiule bianco che la fanciulla indossava.
    “Ora sono io che devo offrirle un bel bagno caldo e dei vestiti puliti…” disse Steve ilare ed imbarazzato.
    “Forse…” cicaleggiò maliziosa Rosy, piacevolmente stupita da quel contatto inaspettato “…si potrebbe usar lo stesso tinello…”
    “Via via, era solo uno scherzo!” aggiunse rapida la ragazza, notando lo sgomento che la sua audace battuta aveva provocato nel suo giovane nuovo amico.
    “Però, che donna!” pensò Steve tra se e se.
    E così, superato l’imbarazzo del momento, i due si avviarono verso la locanda, le mani allacciate, e a vederli passare, tutti infangati e felici, avreste di certo pensato che erano veramente una coppia invero buffa ma ben assortita.

    Steve, mentre approfittava della gentile ospitalità della locanda immerso nell’acqua bollente del tinello nel cui si stava lavando, se ne stava lì a godersi il bel tepore, con un sorriso ebete sulla faccia, suscitato non già dalla bella madama straniera, bensì dalla giovane e sfacciata cuoca, così carina e ben fatta. E d’un tratto si stupì: come era possibile che fino ad ora non l’avesse mai notata? Eppure le serviva il desinare tutti i giorni! Oddio, che confusione nella sua testa, dove ora vorticavano non una ma ben due donne, entrambe (in modo diametralmente opposto) capaci di smuovere i suoi sensi. E figuriamoci se uno come Steve, che già si perdeva in un bicchier d’acqua nel confronto con un problema, poteva fronteggiare ben due invaghimenti.
    Che fare, quindi? Nel dubbio, ebbe una pensata che a lui apparve geniale, ma che in voi lettori susciterà non poche perplessità: avrebbe chiesto l’aiuto di Rosy per incontrare e conquistare la DeBonne Adonna, e così si sarebbe preso ancora un po’ di tempo per scegliere a quale turbamento dei sensi abbandonarsi, se a quello provocato dall’inafferrabile Stafija oppure quello suscitato dalla procace Rosemary.

    Per conto suo, Rosy rimuginava sull’accaduto, e si accorse che la feroce rabbia provata nei confronti di quell’uomo che ignorava le sue attenzioni culinarie si era trasformata in qualcosa di diverso e di molto, molto più dolce. Forse fu per questo, o forse fu per l’inebriante e fresco odore di pulito che Steve emanava, che ella, quando lui le chiese di aiutarlo ad incontrare e conquistare Stafija DeBonne Adonna, senza pensarci due volte gli rispose “Puoi contare sul mio aiuto”.
    “Grazie, grazie grazie! Sentivo che avrei potuto fidarmi di te.” e per suggellare queste parole, le scoccò un tenero bacio sulla guancia. “Domani studieremo insieme il da farsi” dopodiché infilò la porta e se ne andò tutto contento.
    In che follia si stava imbarcando la nostra rubiconda spadellatrice? Proprio mentre messer Allocc andava via, felice per come volgevano gli eventi, miss Thyme si rendeva conto che si stava innamorando di quell’imbranato che aveva sgraziatamente scagliato nel fango del selciato, e l’ultima cosa che voleva era aiutarlo a conquistare un’altra donna. D’altrocanto, pensò che quell’insensata caccia era l’unica plausibile scusa per stare un po’ di tempo insieme a lui, e poi poteva sempre tentare di forzare le cose a suo favore, come solo una femmina sa fare…



    XXXXX



    LAUDATE DOMINUM DI NAPLESLAND



    -Il vento spazzava la valle. Che fatica alzarsi di buon'ora per andare a lavorare i campi. E poi per che cosa? Per portare ricchezza al tiranno che viveva nel castello e pretendeva tutti i proventi del nostro lavoro per arricchirsi lasciando ai sudditi solo il minimo per sopravvivere e, a volte, nemmeno quello... Ma non sarebbe stato un giorno come gli altri, qualche ora prima si preparava la strada a nuovi guerrieri. “Laudate Dominum omnes gentes, Laudate eum, omnes populi, Quoniam confirmata est Super nos misericordia eius” intonava il coro nell’abbazia di Sant’Ethelreda nel piccolo villaggio di Ely, in Cambridgeshire, mentre il sacerdote celebrava la nomina del giovane William a Confratello dell’Orchidea. Era notte fonda, i cavalieri presenti erano ben svegli e lieti di assistere a quella festa. Tra questi, Sir Alec Wittington guardava con orgoglio il suo pupillo ricevere un piccolo vaso con dentro un’orchidea. “Come essa viene da lontano, vai così lontano anche tu a distruggere i suoi nemici” concluse il vecchio ministro, mentre il nostro si alzava e, giratosi verso l’assemblea, ripeteva “Lux pro nobis, lux aliis”, ben presto imitato dai presenti. Alzò quindi l’orchidea al cielo urlando “Sempre in nomen tuum, Dominus” in un tripudio generale. Si avvicinò quindi il buon Alec. “È l’ora” gli disse. “Sì, mio Maestro” gli rispose il giovane, e lentamente guadagnarono l’uscita dal tempio, accompagnati dal canto “Gloria Patri” intonato dai fedeli. I due si guardarono negli occhi mentre salivano sui propri destrieri. Era ancora scuro, scuro come i loro cavalli, scuro come i loro vestiti, e nello scuro rapidamente si dileguarono. Gli intensi occhi azzurri di William guardavano con fervida ammirazione il Maestro che lo accompagnava, era la notte che preludeva la sua prima missione.


    Cameo di Nadia75


    Quante volte aveva immaginato quel momento: la nomina a cavaliere....mai avrebbe sperato di entrare a far parte di un esercito tanto prestigioso...proprio lui, un ragazzo di umili origini che un giorno di 10 anni fa aveva provato sulla propria pelle cosa significa il dolore dell'abbandono provocato dalla morte improvvisa dei suoi genitori per mano degli uomini del Tiranno. Lui, bambino sino ad allora estraneo alla sofferenza, aveva stretto i piccoli pugni e con gli occhi colmi di lacrime aveva promesso a se stesso che un giorno avrebbe reso giustizia alla sua famiglia.
    La sola persona capace di capire il giovane ragazzo e trasformare la sua impulsività violenta in una intelligenza vivace e razionale fu sir Alec, comandate in capo dei guerrieri della Confraternita dell'Orchidea: persona tanto disponibile in battaglia, capace di dare la propria vita , quanto solitario e impenetrabile nel privato...distrutto dal ricordo ancora presente e doloroso della sua amtissima moglie morta di parto dando alla luce il loro tanto desiderato primogenito troppo debole per sopravvivere...
    Raccolgliere per strada il piccolo William, occuparsene per farne un uomo adulto diventò l'obiettivo principale di sir Alec che grazie al piccolo orfano torno' a vivere.
    William imparò a geastire la sua rabbia, dosare la sua forza e ad usare la violenza solo quando necessario.
    Osservandolo con orgoglio montare a cavallo, sir Alec pensò:"ho proprio fatto un buon lavoro"
    Il suo sguardo però non riuscì a mascherare del tutto la sua preoccupazione per il suo adorato William, il figlio che Dio gli aveva donato dandogli una felicità immensa che credeva di non poter provare...la missione prevedeva di raggiungere il Castello del Tiranno, lo scontro era imminente, gli ostacoli imprevedibili...:"vai figliolo, che Dio protegga ogni tuo passo!"....

      La data/ora di oggi è Sab Nov 23, 2024 1:28 am